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PERIEGHESIS. VIAGGIO NELLA STORIA DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL TARANTINO

LA CACCIA NELLA STORIA DEL PAESAGGIO AGRARIO DEL TARANTINO:
da diritto a privilegio

PAROLE CHIAVE: immagini, rural landscape history, Magna Grecia, Messapi, Medioevo, Neolitico, Villa rustica, feudalesimo, demani, paludi, saline, caccia, paesaggio agrario, storia, Taranto, Puglia, Italia Meridionale, gravine, edilizia rurale

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Scena di caccia in una stele dauna (secc. VIII-VI a.C.)(in alto) e (in basso) in un mosaico pavimentale tardoantico, da una villa suburbana in Taranto (V sec. d.C.).

La caccia costituì, insieme alla raccolta dei prodotti naturali, la primitiva occupazione umana. Connaturata con questi ancestrali ricordi, essa è stata a lungo praticata liberamente, resistendo anche allo sviluppo ed all'affermazione dell'agricoltura. In alcuni ambiti, anzi, esse convivevano, continuando la caccia a garantire un utile apporto proteico, complementare agli alimenti derivanti dai campi. Ben di rado essa assunse, nel Tarantino, valore economico autonomo, talchè ben di rado si rinvengono persone dedite esclusivamente a tale attività. Unica evidenza documentaria di tale aspetto consiste nella caccia ai tordi che aveva luogo all'interno della Foresta di Grottaglie, e che annualmente la Mensa Arcivescovile di Taranto, sua signora, concedeva in fitto.

Nel corso del Medioevo si delineò una duplice tipologia di caccia: quella di stampo signorile, rivolta ad animali di grossa taglia, come cervi e cinghiali, ed una, molto più diffusa, rivolta verso animali di piccole dimensioni. A quest'ultima si dedicavano, con una miriade di attrezzi più o meno idonei, la popolazione comune, e può essere considerata come una delle tante attività di sussiego (rientrante nella cosiddetta economia della selva), liberamente praticate all'interno delle terre comuni.

Col progredire dell’accentramento del potere regio e con la diffusione del diritto forestale l’attività venatoria subì notevoli limitazioni, fino a divenire una regalia, cioè prerogativa regia, il cui esercizio costituiva oggetto di donazione graziosa, per lo più in favore di enti religiosi beneficiati. Con Federico II, grande appassionato dell’attività venatoria, la possibilità di cacciare liberamente subì ulteriori limitazioni, fino ad essere del tutto vietata in particolari boschi regi indicati come defense et loca sollatiorum, in pratica sinonimi di riserva signorile di caccia.

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Alcuni luoghi simbolici per la storia della caccia nel Tarantino: Masseria Girifalco, teatro dei sollacia regi in età svevo-angionia, e gli ultimi santuari della caccia di stampo signorile: il bosco di Caggioni (a Pulsano, in gran parte andato distrutto a seguito di un tremendo incendio) e Masseria del Marchese (Manduria) nelle cui pertinenze il principe di leporano ed il marchese di Francavilla conducevano i loro esercizi venatori.

La previsione di spazi destinati ai sollatia regi rientrò quindi a pieno titolo nella giurisdizione forestale.
Analogo fu l'atteggiamento dei primi regnanti angioini,
ma la successiva affermazione del potere baronale e la progressiva privatizzazione delle terre pubbliche trasformarono l'esercizio della caccia in privilegio distintivo, in possesso di pochi potenti.

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Un nostalgico ricordo della caccia d'un tempo resta immortalato all'interno del vasto latifondo di Masseria Accetta, ove i Cordiglia realizzarono (verso la metà dell'800) la Caccia Riservata: un estremo tentativo di mantenere lo stile di caccia di tipo medievale. Ne sopravvivono il casino di caccia (a sinistra) e i mnumentali portali di accesso. La struttura rappresenta uno dei più importanti esempi di architettura rurale del Tarantino.

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Il disdegnoso distacco frapposto fra la nobiltà storica ed il mondo borghese prese anche le vesti della conservazione, quasi nostalgica, degli ultimi brandelli di bosco, posseduti perlopiù da feudatari e destinati a riserva venatoria, gelosamente custodita.

Nel corso dell'Età Moderna erano celebri le battute di caccia organizzate dal marchese di Oria nei boschi lungo il fiume Borraco ed il Patemisco e dal principe di Leporano nel Caggione di Pulsano, alle quali erano invitati i notabili della città. Fu proprio grazie alla loro funzione di prestigio che queste ristrette aree boschive poterono prolungare la propria esistenza, giungendo sino all'alba del '900.

Riferimenti bibliografici:

P.Galloni: L’ambiguità sociale della caccia nel Medioevo, in Quaderni medievali, XXVII (1989), pp. 14-37.
C.D. Poso: Il Salento normanno, Galatina, 1988, p. 182.
A. Lupis: Per una storia della caccia aragonese, in Quaderni medievali, XI (1981), pp. 86-102.
G. Montanari: Gli animali e l’alimentazione umana, in: Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXXI: L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medio Evo, Spoleto, 1985, pp. 619-663.
C.A.Willemsen: La caccia, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle settime giornate normanno-sveve, Bari, 1987, pp. 262-269.
H. Zug Tucci: La caccia, da bene comune a privilegio, in Storia d’Italia, Annali 6: Economia naturale, economia monetaria, Torino, 1983, pp. 399-445.

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