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L'economia della chora coloniale magnogreca ricorreva, in misura e con modalità ignote, all'impiego di schiavi, catturati per lo più con le periodiche razzie compiute in territorio messapico e peuceta.
La vittoria di Roma nelle guerre annibaliche favorì, sia con la diffusione della pastorizia transumante, sia con l'impianto delle villae rusticae, una economia di tipo mercantile che aveva il suo motore proprio nel massiccio impiego di mano d’opera schiavile, di cui sono note diverse testimonianze epigrafiche, soprattutto riferentisi a servi gregarii (cioè dediti alla custodia delle greggi).
Il loro gran numero nel territorio tarantino inserì un elemento di instabilità, responsabile di aperte ribellioni, come nel 185-181 a.C e poi ancora nel 54 d.C., severamente represse nel sangue.
La dipendenza dal mercato degli schiavi ed il loro costo crescente conferì non solo scarsa efficienza e rigidità al sistema economico che su di essi si basava, il modo di produzione schiavistico; pare anche che tale limitazione, soprattutto culturale, abbia altresì costituito il principale ostacolo allo sviluppo tecnologico, pure teoricamente possibile nel contesto delle conoscneze teoriche accumulatesi nel corso dell'Età Antica.
Uno spaccato molto interessante dei rapporti sociali vigenti nelle campagne tarantine nell'Antichità ci viene restituito dalle epigrafi funerarie, molte delle quali recano i nomi di schiavi, la loro attività ed i relativi proprietari. Particolarmente importanti sono quelle rinvenute nei terreni di Masseria Lupoli (Crispiano), attualmente conservate nel locale museo storico
La crisi colpì soprattutto la grande proprietà dimensionalmente accresciutasi per tutta l'età imperiale, sino ad in maniera spropositata.Nei primi secoli dell'Impero il sistema delle villae rustiche entrò in crisi, come del resto l'intera economia agricola italica.
A seguito della crisi del sistema schiavistico si fece strada, nel corso dell'Età Tardoantica una nuova figura di coltivatore, indicata nella ricca giurispridenza dell'epoca come colono.
Tale termine veniva applicato a coloro che lavoravano su lotti di terre avute in concessione da un proprietario terriero, il dominus,ormai non più in grado di reperire la mano d'opera occorrente alla conduzione diretta del suo latifundium.
Il suo status, formalmente libero, era sottoposto tuttavia a severe limitazioni personali, essendo strettamente vincolato alla terra, della quale seguiva i destini; per molti versi la sua condizione non era molto dissimile da quella dei veri e propri schiavi, che, sebbene in numero sempre più esiguo (ma senza mai scomparire del tutto) continuavano a far parte integrante dei latifundia, anch'essi per lo più di titolari di quote di terre assegnate (servi quasi coloni). Più di rado gli schiavi venivano addetti alla coltivazione dei pochi fundi che il dominus riteneva di dover (e poter) continuare a gestire in proprio, secondo i criteri del modo di produzione schiavistico.
I confini dello stato giuridico dei molti lavoratori della terra era reso ulteriormente indistinto dalla moltitudine di piccoli e medi possessori (liberi) di terre i quali, per sfuggire alla oppressione della onnipresente e vorace macchina amministrativa imperiale, preferivano rinunciare alla propria libertà ponendosi sotto l'ala protettrice dei domini locali, cui preferivano cedere le rispettive proprietà, continuando a lavorarle in qualità di coloni.
I vincoli alla terra e le forme di limitazione della libertà personale vigenti nel primo Medioevo erano la diretta evoluzione di quelle vigenti in epoca tardoantica.
La figura più rappresentativa è quella del servus casatus, lavoratore della terra reso schiavo per motivi bellici o giuridici (debiti, delitti) e titolare di una casa, cioè di un complesso di terre e di edifici avuti in concessione dal dominus in cambio di canoni (corrisposti per lo più in natura) e di prestazioni personali (angariae) all'interno di quella parte di proprietà (la pars dominica) rimasta nella disponibilità diretta del grande proprietario altomedievale; ad essa era contrapposta la pars massaricia, quella, invece, suddivisa fra coloni e servi, gestita quindi in maniera indiretta.
Occorre tuttavia precisare che tale distinzione, alla base del modello economico prevalente nel corso dell'Alto Medio Evo, il sistema curtense, appare scarsamente documentato nell'Italia meridionale e mai attestato nel Tarantino, ove si attardarono, probabilmente le forme tardoantiche, perpetuatesi in seno ai domini bizantini.
L'introduzione del feudalesimo trasferì nelle mani dei feudatari diritti di pertinenza della corona, per lo più sotto forma di angariae; la maggior parte degli obblighi personali cui erano tenuti i vassalli costituivano tuttavia veri e propri abusi. I secoli successivi al Mille, tuttavia, le comunità organizzate ottennero la commutazione degli oneri personali in denaro.
Occorre ricordare, comunque, come, ancora nell'Inventaium dei beni e delle rednite pertinenti al principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini, risalente all'inizio del '400, gli abitanti dei casali intorno a Taranto (Lizzano, Monacizzo, Grottaglie, Carosino, Fragagnano) appaiono ancora tenuti ad effettuare una giornata di lavoro per conto della Curia principis.
Un relitto toponomastico delle antiche casae, cioè dei complessi di terre e di edifici date in concessione dal signore ad un colono od a uno schiavo accasato è forse rinvenibile nella denominazione di numerose masserie, come Casabianca (Statte, Grottaglie e Lizzano) e Casarossa (San Marzano), le cui immediate pertinenze spesso rivelano evidenti tracce archeologiche risalenti sino ad età greca, se non preistorica.
.Rilevante già all'interno delle aziende statali svevo-angioine, come le masserie regie, fu però soprattutto a seguito dello sviluppo di una economia agricola fortemente mercantilizzata, cioè a partire dal XVI secolo, che il lavoro salariato raggiunse il suo sviluppo massimo, innescando, con le relative dinamiche salariali, una ulteriore variabile dipendente in seno ad un' economia avviata verso la transizione protocapitalistica.
Il sistema territoriale che faceva capo al porto di Taranto aveva una intrinseca vocazione mercantile; la sua specializzazione colturale originava inoltre elevati picchi di domanda di mano d'opera, distribuiti lungo tutto l'arco dell'anno: fra fine maggio e luglio per la mietitura e la trebbiatura, fra settembre ed ottobre per la vendemmia, fra ottobre ed aprile per la raccolta e la lavorazione delle olive.
Tale condizione ne faceva un terminale di flussi immigratori stagionali, provenienti dalle province contermini, ad economie più settoriali, ma complementari: dalla Murgia alta e bassa (regioni cerealicole e pastorali) nei mesi invernali, quando manifestavano un surplus di mano d'opera disponibile), dal Capo di Lecce, area oleicola, in estate, per la mietitura).
La condizione economica dei lavoratori della terra era molto variabile: al vertice della piramide erano i massari, alla base i braccianti (gualani, foresi, coloni, bracciali, villani) che vivevano esclusivamente del proprio lavoro. In mezzo erano piccoli possesssori di terre (magari prese a censo da qualche signore) generalmente condotte a orto, giardino o vigneto, piccoli artigiani che alternavano il lavoro autonomo con quello alle dipendenze.
Significativo l'apporto delle donne nel lavoro agricolo, cui erano riservati compiti come la raccolta delle olive, la vendemmia, la raccolta del cotone, ma anche lavori più onerosi, come lo spietramento delle terre.
La signoria agraria, una delle istituzioni più antiche delle campagne meridionali, prese le mosse in Età Tardoantica, quando il ricco e potente latifondista abbandonò l' abituale residenza urbana per insediarsi nella sua dipendenza rurale. I latifundia divennero cellule autarchiche sganciate dal contesto giurisdizionale, amministrativo e fiscale che faceva ancora riferimento alla ormai decadente città, alla quale sottrasseroanche diverse funzioni produttive che sino ad allora l'avevano caratterizzata, come l'allestimento di mercati, molte produzioni artigianali.
Al dominus furono attribuiti, con il trascorrere del tempo, incarichi di natura pubblica (come quelli della difesa territoriale e della protezione personale); istituì eserciti e carceri privati, legò al suo carisma personale, mediante vincoli economici e di solidarietà extraeconomica, la vastissima schiera di persone che a vario titolo gravitavano o dipendevano dalla sua proprietà e potere.
Il radicamento di tale formazione sociale fu tale, ad esempio, da contribuire in maniera determinante a dare un esito a molti episodi della drammatica e lacerante guerra greco-gotica della prima metà del VI secolo.
Quando i Normanni conquistarono Taranto ed il suo territorio (alle fine XI secolo) fecero proprie le prerogative economiche e sociali acquisite dai preesistenti signori locali (longobardi o bizantini), inserendole all'interno della istituzione feudale da essi introdotta.
Il nuovo potere territoriale si configurò come distretto giurisdizionale di stampo signorile, sostitutivo dell'autorità pubblica ed esteso universalmente a tutte le potenzialità produttive del territorio dipendente. Lo strumento attuativo era l'imposizione del proprio dominio superiore sulla terra (estrinsecato nel prelievo di una quota della produzione agricola, la decima) e dei diritti di bando, come quelli che concernevano le l'accesso all'incolto, e il possesso esclusivo degli strumenti necessari alla trasformazione dei principali prodotti agricoli (uva, grano e olive), come, rispettivamente, i palmenti, i mulini, le aie ed i trappeti.
L'identificazione della nobiltà con la signoria agraria si esprime emblematicamente con la frequente presenza di stemmi all'interno delle masserie
.La signoria agraria continuò ad essere la protagonista incontrastata della storia delle campagne anche quando (nel corso del XVI secolo) la feudalità perse definitivamente la sua guerra personale contro lo Stato centrale, perdendo così la sua partita per il protagonismo politico.
Lo sviluppo di una agricoltura fortemente mercantilistica rendeva tuttavia appetibili le campagne meridionali per gli speculatori di tutta Italia, che, arricchitisi con le transazioni commerciali e finanziarie, in gran numero investirono nell'acquisto di feudi nel Regnbo di Napoli. Si impiantò così nel Tarantino una nuova generazione di feudatari, originari di Genova, Firenze, Milano, Napoli e dintorni, che conferì alla stessa istituzione feudale un carattere marcatamente commerciale e speculativo, onde si è parlato di rifeudalizzazione.
I feudatari non furono, tuttavia, i soli protagonisti della nuova economia: ad essi si affiancava infatti l'antica nobiltà storica (il nerbo del patriziato cittadino) e la folta schiera di homines novi, come i nobili di toga, notai e giudici, in primo luogo ascritti alla nobiltà per privilegio regio. Relativo successo sociale era ancora riservato alla categoria dei militari, della quale facevano parte sia l' antica (e più classica, seppur decaduta) nobiltà d'armi, questa volta devota al nuovo Re, sia molti avventurieri che, nel corso delle continue campagne d'armi intraprese dagli Spagnoli, si guadagnavano con il proprio valore onori, blasoni e ricchezze considerevoli.
E' questa l'epoca dei condottieri albanesi come i Basta, i Matthes ed i Castriota, che grazie alla generosità dell'Imperatore poterono fondare vaste e più o meno durature (nel caso dei Basta) signorie feudali nel Tarantino orientale, come a San Marzano ed a Roccaforzata. Il successo di questi personaggi non rallentò, tuttavia, la progressiva perdita di attrattiva che i nuovi ricchi provano per la carriera militare, cui destinarono, in genere, i cadetti della famiglia.
Era invece nel campo della economia commerciale e speculativa (compravendita di prodotti agricoli, prestito di denaro, grandi affittanze di patrimoni ed interi feudi) che si aprivano la maggior parte delle opportunità di progresso e crescita sociale, grazie ad una realtà in movimento e certamente più aperta che in passato.
Seguendo un cliché consolidato, i più fortunati dei tanti uomini d'affari che affollavano l'emporio tarantino in Età Moderna cercavano l'avventura fondiaria, ritenuta essenziale per definire un compiuto status nobiliare, cui concorreva la delineazione di uno stile di vita distintivo, imporntato a ostentazione, prodigalità e ricercatezza. In tal maniera venivano poste le precondizioni per essere accolti all'interno della élite nobiliare cittadina, aiutati in tal senso anche dalla progressiva estinzione delle casate storiche. Per tal motivo nel '700 la nobiltà cittadina venne rinnovata quasi completamente, mediante la cooptazione dei nuovi ricchi (i Calò, i Boffoluto, i De Cesare, i Lo Jucco, gli Acclavio, i Ciura, i Beaumont), molti dei quali furono i protagonisti della vita politica ed amministrativa della città fra '700 ed '800.
Nonostante le analogie, l’istituzione feudale e quella signorile costituivano ben distinte fenomenologie sociali, cui la Storia ha assegnato ruoli e destini affatto diversi: dipendente da fattori politici, ilfeudalesimo poté, anche se a fatica, essere superato con la legge del 2 agosto del 1806; più intimamente connesso invece con la generale struttura sociale ed economica del territorio, la signoria agraria, che l'aveva preceduto, gli fece seguito per molto tempo ancora.
Questa iscrizione, presente all'interno della Masseria Maviglia (Maruggio), esprime molto eloquentemente l'adesione della classe dei galantuomini agli ideali risorgimentali, di ispirazione liberale.
L'ultima espressione della signoria terriera è stata quella incarnata dai galantuomini, originatasi, passaggio fra '700 e '800 , dalle ceneri della nobiltà d'ancient régime, della quale ripropose, con gli opportuni aggiustamenti, le nostalgie per il passato, anche perché in essa confluirono i membri più accorti della vecchia compagine nobiliare.
Il tratto più caratteristico della nuova classe sociale è però costituita dall'esasperato spirito speculativo ed il disprezzo per le classi umili. Grazie alla disponibilità di denaro (la loro origine era per lo più commerciale o di fittavoli-banchieri) si interposero fra grande proprietà e la massa dei lavoratori agricoli, escludendo questi ultimi dall'accesso alle funzioni gestionali più elevate nella conduzione dei patrimoni signorili ed ecclesiastici. Dal punto di vista politico la nuova compagine era liberista e liberale, per cui viveva con sempre maggior disagio l'opprimente parernalismo conservatore borbonico. In tal maniera si maturò la netta separazione con le classi più basse, esplosa nel corso delle stristi vicende della Repubblica napoletana del 1799 ed, ancor più, all'indomani dell'Unità d'Italia, col il fenomeno del brigantaggio, che fu soprattutto un movimento di ribellione avverso gli odiati liberali.
Il distacco fu reso ancor più lacerante dacchè i galantuomini seppero affrontare con prepotenza e cinismo il processo di defeudalizzazione intrapreso nel corso del decennio napoleonico e proseguito per tutto l'Ottocento ed oltre. Lo scioglimento delle promiscuità fu, ad esmpio, interpretato dagli agrari (per lo più martinesi) che possedevano masserie all'interno degli antichi feudi delle abbazie di Santa Maria del Galeso e di Crispiano, come appadronamento tout cour delle terre demaniali, che ne costituivano la maggior parte delle terre.
Ancora, seppero cogliere a piene mani quella anattesa manna che fu la liquidazione del patrimonio ecclesiastico, a cominciare dalle iniziative intraprese nel corso del decennio napoleonico, per concludersi all'indomani dell'Unità.
Il coronamento di questa brillante ed inarrestabile ascesa fu certamente la conquista del monopolio politico ed amministrativo, per ottenere il quale non esitò ad abbracciare in massa il progetto unitario offerto loro dall'impresa di Garibaldi.
L'aspetto militare e quello economico del potere feudale si esprimono in Grottaglie con il turrito castello episcopio ed il monumentale portale di accesso al giardino Caracciolo.
Il Clero secolare tarantino, raccolto nel Capitolo della Chiesa Cattedrale, non acquisì connotati feudali, ma gli furono trasferite dall'Arcivescovo molte delle gratificazioni economiche da questi godute. La sua fortuna fondiaria si deva soprattutto alle offerte devozionali dei Tarantini. Accumltatosi, a causa della inalienabilità del patrimonio sacro, nel corso dei secoli e rimesso parzialmente in circolo con il meccanismo della concessione enfiteutica, alla fine del '700 gran parte del territorio cittadino risultava in qualche maniera vincolato economicamente al Capitolo Da una parte erano censi e canoni in denaro, relativi anche ad interi feudi, come quelli di Castigno (Maruggio); dall'altra beni fondiari in conduzione diretta, come molte masserie (Pilone, Mennuta, Gravinola, San Paolo e Taddeo, San Marco li Canuli, Cappello, Bagnara, San Pietro all'Isola). La gestione di tale ingente patrimonio fu delegata per lo più ai più abili uomini d'affari della Taranto che contava.
A partire dal '400 anche i più importanti centri abitati (Grottaglie, Martina, Pulsano) del territorio si dotarono di un proprio Capitolo, raccolto intorno alle rispettive chiese collegiate, divenendo anch'esse destinatari privilegiati della pietas devozionale dei cittadini, promuovendoli ai primi posti nella proprietà terriera nei rispettivi centri abitati.
Disperso tale patrimonio a seguito della distruzioni apportate dai Saraceni, il patrimonio monastico su ricostruito all'indomani dell'arrivo dei Normanni. Questi si dimostrarono parimenti generosi nei confronti di tutti i più importanti monasteri benedettini, come San Lorenzo d'Aversa (cui donarno il feudo di San Pietro in Bevagna), Montecassino e e la Santissima Trinità di Cava dei Tirreni, cui donarono gran parte delle chiese e degli altri possedimenti ecclesiastici pervenuti in loro potere all'indomani della conquista. Anche le importanti abbazie italo-greche di San Vito del Pizzo, di San Pietro de insula e dei Santi Pietro e Andrea de insula parva furono dotate di vastissimi patrimoni fondiari e di veri e propri feudi.
Ai regnanti svevi si deve, invece, il successo dei Cistercensi, insediatisi nell'abbazia di Santa Maria del Galeso e nei feudi di San Simone, Cigliano e Paula.La natura di questi possessi non sempre risulta chiara, e diede origine a diversi problemi interpretativi al momento della eversione feudale.Nel pieno del proprio sviluppo, tuttavia, e sino a tutto il XIII secolo, essi definirono distinte signorie terriere monastiche dotate di pieni poteri giurisdizionali.
Entrate in crisi fra XIV e XV secolo, queste istituzioni vennero affidate a cardinali commendatari, selezionati all'interno dell'entourage della curia vaticana; i relativi patrimoni, perennemente esposti alle mire speculative dei rispettivi detentori e familiares, vennero, a partire dal XVI secolo dati in concessione. Ciò a seguito della promulgazione dell'indulto apostolico di Giulio II del 1505, confermato dal breve di Giulio III nel 1551, ed in particolare dopo il Concilio di Trento, con la pubblicazione della bolla De censibus, emanata da papa Pio V nel 1569. Divenennero così per lo più preda di feudatari e signori locali.
Dalla loro frammentazione sorsero gran parte delle masserie del Tarantino.Diverse masserie conservano, nella propria denominazione, un antico possesso ecclesiastico che ha resistito pure agli eventi successivi alle leggi di eversione succedutesi a partire dalla fine del Settecento e completate con l'Unità d'Italia. Nelle immagini la masseria del Capitolo (Taranto) alle Paludi del Tara e quella dell'Annunziata, già dei Celestini
Posizione di particolare prestigio ebbero i monasteri femminili (le Clarisse e le Benedettine di San Giovanni in Taranto, le Clarisse di San Geronimo in Grottaglie, le Agostiniane a Martina Franca), il cui significato va letto interamente all'interno delle logiche locali, in quanto verso di essi le famiglie più in vista collocavano le donne non destinate a matrimoni prestigiosi, unitamente a parte del proprio patrimonio. Grazie alla notevole disponibilità di denaro, che reinvestivano in prestiti lucrosi, anche questi si inserirono nel mercato fondiario, accumulando notevoli quantità di beni fondiari, di cui resta la ricca toponomastica.
visitatori da aprile 2001
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