PAROLE CHIAVE: immagini, rural landscape history, storia paesaggiio agrario, tufi, cave, tagliate, resine, feudalesimo, demani, paludi, fiumi, calcare, carbonella, Taranto, Puglia, Italia Meridionale, edilizia rurale
I primi edifici abitativi noti dall'archeologia pre- e protostorica furono costruiti con materiale vegetale (rami, tronchi o, più spesso, canne) cementato con un intonaco di fango. Tale fisionomia avevano le prime abitazioni del Tarantino note, dal Neolitico alla pure avanzata Età del Bronzo. La relativa arretratezza culturale e disponibilità di materia prima non sollecitò i primitivi abitatori a ricercare nuove soluzioni edilizie.
Le cose mutarono nel corso del II millennio per via dei sempre più frequenti contatti con le popolazioni egee (i Micenei in primo luogo), che introdussero tecniche edilizie più avanzate, quali l'impiego di materiale lapideo, che comparvero in breve all'interno degli abitati che con essi precocemente instaurarono relazioni costanti.Le cave di tufo costituiscono, fra quelli creati dall'uomo, uno dei paesaggi più suggestivi. Qui è rappresentata la cava di Sant'Oronzo a Massafra
Altre immagini di cave nella sezione Atlante
Furono i Greci, fondatori della colonia di Taranto, ad introdurre ancor più avanzate tecniche edilizie, oltre che una vera e propria urbanistica; ben presto queste si diffusero anche fra le popolazioni locali, che tuttavia le reinterpretarono molto creativamente.
Per l'edificazione degli edifici si seguivano due direttrici: o utilizzare blocchi di pietra informi, ovvero tagliare la pietra compatta in blocchi. Per cementare le parti si ricorreva alla malta (impasto di calce e inerti). Le due tecniche furono sempre affiancate, riservandosi la seconda per le creazioni architettoniche di maggior rilievo. Solo nel corso dell'Ottocento si generalizzò l'utilizzo di blocchi regolari per tutti i tipi di edifici. Le caratteristiche geologiche di gran parte del Tarantino ha favorito l'utilizzo diffuso in edilizia di manufatti ricavati dal taglio della calcarenite (volgarmente tufo) in blocchi (uccetti) di forma e dimensione variabile a seconda della destinazione di uso e dell'epoca.
Per questa attività ci si serviva di un armamentario particolare in dotazione ai cavamonti (zoccatori) che, scavando all'interno delle tagliate per inseguire la pietra migliore, hanno finito con il creare vere e proprie città sotterranee, sempre molto suggestive da un punto di vista paesaggistico. Una volta esaurita la cava, gli spazi così ottenuti erano spesso riciclati per ricavarne giardini ed oliveti, dando un ulteriore saggio di creatività e di laboriosità del contadino salentino.
Se però l'edificazione dei muri perimetrali seguì schemi piuttosto uniformi, non accadde lo stesso per le coperture, che talvolta (la tipica incannicciata, o semplicemente tetto) mantenne le caratteristiche primitive dell'impasto fra materiale vegetale (canne) con argilla, con ulteriore copetura con tegole (embrici), in parte invece subì l'evoluzione verso la volta lapidea (lamia), variamente conformata (a botte, a stella, ad unghiate, ecc)
Da sinistra: chiancarelle (in parte asportate) adoperate per le coperture delle cummerse o pignon (da Masseria Vannella-Martina Franca); la pseudocupola di un trullo; tufi di una volta a botte (lamia)
Nelle aree abitative insistenti su un substrato calcareo, come la Murgia di Sud-Est e la zona delle Murge Tarantine, il taglio della pietra dura (il calcare di Altamura) costituiva, naturalmente, una impresa più faticosa, per cui si preferiva andare alla ricerca dei giacimenti di calcare stratificato per lastre sottili (le chianche), per utilizzare le quali era sufficiente la sola sagomatura. Con tale materiale si rivestivano strade, pavimenti ed aie, ma si costruivano anche i tetti a pignon (cummerse) delle abitazioni e le pseudocupole dei trulli.
Dalla pietra si ricavavano anche manufatti ampiamente utilizzati per lo svolgimento delle più diverse attività: dai blocchi di calcare si ricavavano le macine e per mulini e frantoi, vari componenti delle presse (la chianca); dal tufo si ricavavano le vasche per gli abbeveratoi e per uso domestico (pile), le mangiatoie, i mortai e tanti altri utilissimi arnesi quotidiani.
Alcuni manufatti ottenuti dalla lavorazine delle pietra: la chianca e le macine per i trappeti, le pile per abbeverare il bestiame, la pietra per la pisa.
Anche l'argilla rappresenta un altro esempio di attività di cava. Dalla sua raffinazione si ricavava la materia prima per l'artigianato figulino, che nel Tarantino ha sempre avuto una prestigiosa tradizione, dalla Taranto magnogreca alla moderna Grottaglie. Oltre ai prodotti ceramici, dall'argilla si ricavavano, però, anche i comuni i mattoni per pavimenti e le tegole (imbrici).
Con la privatizzazione o la feudalizzazione delle terre tutte queste attività (cava ed estrazione dell'argilla) furono poste sotto il rigido controllo dei proprietari e dei signori i quali si attribuivano l'equivalente medievale dello jus fundi. Per il riconoscimento di tale prerogativa il titolare dell'impresa era quindi tenuto a corrispondere o una quota di materiali finiti o un canone in denaro.
Nei pressi di Grottaglie era situata ad esempio l'aera della creta che alimentava il ricco artigianato locale, ed era sottoposto alla giurisdizione dell'arcivescovo tarantino.Per maggiori dettagli iconografici si vada alla sezione Atlante
Qui in basso: l'ingresso ad una fornace per la cottura di mattoni e terracotte nei pressi di Monteiasi, gli embrici dei tetti di Masseria l'Amastuola (Crispiano).
La produzione di manufatti per l'edilizia (mattoni e tegole) e per l'uso domestico (pentole, piatti, contenitori) richiedeva la cottura dell'argilla all'interno di fornaci (onde il termine di terrecotte), situate in genere o in quartieri specializzati (come nella Taranto magno-greca o nel moderno quartiere delle Ceramiche di Grottaglie), nella immediata periferia del centro abitato (a ridosso della Porta di Napoli nella Taranto moderna) o in aperta campagna. Per il loro funzionamento richiedevano il continuo rifornimento di materia prima, rappresentata dal legno.
Tufi e chianche possono essere
assemblate fra di loro a secco, sfruttando
o modificando la forma delle pietre, ma più spesso si ricorreva a materiali
cementanti. Oltre al cemento naturale (il bolo, estratto dal fondo delle doline,
laddove si raccoglie un materiale con tali caratteristiche), a tale scopo
di adoperava la malta. Il materiale di partenza è costituito dalla calce, la quale
a sua volta si ricava per arrostimento della pietra
calcarea: grazie alle alte temperature il carbonato di calcio (CaCO3)
si trasforma in ossido di calcio (CaO),
detto anche calce viva; questa, combinata con acqua (la reazione è
fortemente esotermica), dà poi origine all'idrossido di calcio (Ca(OH)2), detta anche
calce spenta. Mescolata a inerti (come tufo in polvere, frammenti di laterizi o
terracotta o pietroline, a seconda dell'uso finale) si otteneva la malta, che è il
materiale cementante per eccellenza.
Malte particolari venivano approntate per l' impermeabizzazione di pozzi e cisterne.
Il processo di arrostimento della pietra avveniva in apposite strutture dette calcare, dislocate
in località che disponevano delle materie prime
necessarie, la pietra calcarea e il combustibile legnoso.
Il loro riscontro è quanto mai frequente nelle campagne tarantine, sin nelle
aree più impervie dell'entroterra, in special modo sul fondo delle
gravine.
Anche per questa attività il titolare doveva corrispondere al proprietario del
fondo una quota del prodotto o una certa somma di denaro.
La più monumentale delle calcare, nella gravina di Penziero (Grottaglie)
Dalla legna raccolta nei boschi e nelle macchie si ricavava la carbonella. Rispetto alla legna questo costituiva un combustibile più leggero, trasportabile e più a lungo conservabile.
La produzione di carbonella avveniva in apposite strutture chiamate carbonaie, poste in genere in radure all'interno o nelle immediate adiacenze di boschi o macchie; fra le essenze particolarmente ricercate erano il Lentisco ed il Corbezzolo.
Qui a fianco una carbonaia nel Parco nazionale del Gargano.La tecnica consisteva nella creazione di un grande cumulo di fascine di legna ben ordinato, nella sua copertura con terra e nella successiva accensione. Questa conduceva, per combustione solo parziale, a causa della scarsità dell'ossigeno all'interno del cumulo, alla carbonificazioine della legna.
A questa erano associate anche le prime attività silvicolturali, praticate soprattutto nelle aree murgiane interne, laddove cisoè il disboscamento, non aveva ancora condotto alla perdita del manto forestale. Con periodicità variabile, tale comunque da consentire nell'intervallo la ripresa vegetativa, i proprietari (i martinesi erano, per forza di cose, maggiormente impegnati in tale attività) vendevano la legna dei rispettivi parchi e difese a imprenditori specializzati nel settore specifico; questi si riservavano, nell'arco di uno o più anni, la facoltà di tagliare gli alberi (in genere si trattava comunque di cedui) lasciando a debita distanza un virgulto per ciascun ceppo. Man mano che vendevano la carbonella ripagavano il proprietario. Il giro di denaro ammontava spesso a migliaia di ducati.
Il rinvenimento di abbondanti quantità di scorie ferrose in una determinata località è in genere una spia della pregressa presenza di una attività metallurgica. Non sappiamo nulla delle modalità e sulle motivazioni che abbiano potuto indurre, in talune epoche, a spostare una simile attività, tradizionalmente legata all'ambiente urbano, in ambiti anche molto distanti dai più importanti centri abitati, anche se sempre in diretta connessione con i principali assi viari. E' il caso, ad esempio, del più importante di tali siti, quello di Badessa-Monte del Forno, particolarmente attivo in Età Tardoantica e nell'Alto Medioevo; la sua posizione periferica, nel pieno della Murgia, anche se lungo una via istmica che consentiva facili connessioni sia con il porto di Taranto che quello di Egnazia, si deve certamente alla larga disponibilità di combustibile in loco.
Le piante sono state, sino a circa un secolo fa, la principale fonte di sostanze chimiche organiche per l'utilizzo industriale da parte dell'Uomo.
Particolare rilevanza avevano le resine , che si ricavavano dai tronchi e da frutti di alcune essenze.
Da incisioni praticate lungo i tronchi del Pino d' Aleppo, presente in estesissime formazioni lungo il litorale occidentale del Tarantino, si ricavava la pece, dalla quale, dopo un primo processo di cottura (in apposite pecerie) e di successiva macinatura (in mulini specializzati), si otteneva un materiale utilizzato, fra l'altro, per calafatare le imbarcazioni. Ciò detto è facilmente comprensibile l'importanza che tale attività aveva in una città di mare come Taranto. Dalla medesima resina si ricavano anche preparati medicinali e combustibili per lanterne.
L'attività di estrazione della resina dagli alberi di Pino venne, già in età romana, sottoposta a rigido controllo da parte del Fisco, che vi traeva una tassa di concessione, come per le saline. Con Federico II lo Stato tornò a vantare i suoi diritti, imponendo il pagamento della quinta parte (la cosiddetta quintaria) di quanto i proprietari (ma anche coloro che semplicemente intraprendessero tale attività sulle pinete demaniali) ricavavano dall'estrazione. Questa attività è continuata, in larga scala, sino alla seconda metà dell'800.
Altre piante dalle quali si ricavavano resine erano il Lentisco (dal suo tronco si ricavava il mastice, di largo impiego cosmetico e farmacologico, mentre dai frutti si otteneva un ottimo olio, l'olio di stinge, adoperato come combustibile per lanterne), il Terebinto (la cui resina era la trementina, il più celebrato balsamo dell'antichità) e, soprattutto il Frassino minore (o Orniello).
Per approfondire:Alcune delle piante la cui resina era raccolta per essere utilizzate industrialmente. In alto: il pino d'Aleppo (dal quale si ricavava la pece per il calafataggio delle imbarcazioni), il Frassino da manna o minore, il Lentisco (dal quale si ricavava l'olio di stinge ed il mastice). In basso: il Terebinto (produttore della trementina)ed alcune galle, utilizzate come medicamento ma anche per la preparazioine di inchiostri e per la concia delle pelli.
Quest'ultima è stato sino alla fine dell'Ottocento oggetto di sfruttamento economico nel territorio di Castellaneta. Dalla resina che si otteneva incidendo le foglie o i tronchi di questa pianta si ricavava la manna, una sostanza di diffusissimo impiego medico e dietetico.
Data l'impossibilità tecnologica di produrre industrialmente il freddo, la società preindustriale aveva escogitato vari sistemi per la conservazione dell'unico elemento refrigerante naturalmente disponibile, la neve.
A tale scopo venivano approntate strutture edilizie specializzate, di portata monumentale, note come niviere (qui a fianco una in Valle d'Itria-Martina Franca); ivi condotta, era sottoposta a lavorazioni particolari (soprattutto la compattazione) per essere poi stoccata. In tal modo era possibile avere materiale refrigerante (adoperato anche per la preparazione gustosi sorbetti) sino ad estate inoltrata.
In genere la localizzazione nelle niviere corrispondeva con le aree più interne della Murgia (con i territori di Mottola, Laterza e Martina Franca in particolare), ma ne esisteva una anche presso San Marzano, ove denominava una importante masseria, Massafra, Grottaglie e persino nei dintorni di Taranto, ove però veniva conservata la neve importata. Il commercio della neve era in genere nelle mani dei feudatari, i quali rifornivano il principale mercato, la città di Taranto; la vendita al minuto costituiva un diritto di privativa nella disponibilità dell'Università, che annualmente metteva all'asta il relativo partito della neve. .
Per approfondimento: IL COMMERCIO DELLA NEVE FRA LA MURGIA E TARANTO NEL CORSO DELLA PICCOLA ERA GLACIALE (secc. XVII-XVIII)
visitatori da aprile 2001
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