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IL GRAND TOUR DELLA TERRA DELLE GRAVINE

PAROLE CHIAVE: immagini, rural landscape history, storia del paesaggio agrario, Taranto, Puglia, Italia meridionale, associazione culturale, gravine

IL CAMMINO DEI PITAGORICI

IX GRAND TOUR DELLA TERRA DELLE GRAVINE (30 aprile-3 maggio 2015)

Da Taranto a Masseria Lamastuola (Crispiano) via Metaponto

Grandttour2015-IX (28K)

LA STORIA

Parrà strano, ma c’era una volta una città splendida: sopra di lei il cielo era sempre sgombro da qualsivoglia caligine grigia o rugginosa ed era abbracciata tutt’intorno da un mare sempre limpido, generoso di colori e carico di mille profumi. Al suo interno monumenti realizzati dai migliori artisti dell’epoca. Al suo governo erano poi i migliori uomini. Mentre passaggiavano per l’agorà o percorrevano l’erto sentiero che conduceva all’acropoli dai cento sacelli, molti dei suoi cittadini discutevano di politica, di arte della guerra e della politica, ma soprattutto… di numeri.

Già, perché Taranto greca ospitava una affollatissima scuola di filosofi ed intellettuali che professavano la saggezza pitagorica la quale faceva, come noto, della numerologia la propria bibbia. Pensate che dei 218 pitagorici indicati nel catalogo compilato da Giamblico, autore di una Vita pitagorica dalla quale ho tratto questi spunti, ben 43 erano tarantini; l’unica altra città capace di farle concorrenza era la vicina Metaponto, nella quale la tradizione colloca la morte stessa del filosofo di Samo, con altri 38 filosofi.

La nostra Taranto viveva quindi a quell’epoca, si era all’inizio del IV secolo dell’era precedente quella nostra, il periodo di massimo suo fulgore. Come sempre accade, la sua fortuna attirò la gelosia del tiranno di Siracusa, Dioniso, il quale era sì crudele ed implacabile con i suoi nemici, ma si portava al tempo stesso da mecenate. Anche la sua Siracusa non se la passava certo tanto male quanto a splendore e ricchezza, ma… il suo cruccio principale era il fatto che fra i tanti intellettuali di cui amava circondarsi non v’erano pitagorici, che anzi lo fuggivano proprio per il suo dispotismo. L’invidia lo corrodeva, sino a che un giorno si risolse ad un colpo di mano. Diede pertanto incarico ad una trentina di suoi sgherri di recarsi in Taranto e di non farne ritorno se non dopo averne catturato quanti più possibile.

L’occasione era data dalla circostanza che i pitagorici tarantini compivano annualmente, sul principio della primavera, una sorta di pellegrinaggio stagionale per recarsi a Metaponto, supponiamo (ma la fonte non ne fa cenno) per onorare la memoria del loro maestro.

Eurimene, questo il nome del capo della masnada, appostò i suoi uomini in una località nascosta, piena di insondabili voragini e solcata da profonde gravine, per la quale i pitagorici sarebbero dovuti necessariamente transitare.

Il luogo, indicato col nome di Fane, è stato di volta in volta localizzato dalla fantasia degli storici: come sempre accade, i palagianesi la situano nel territorio di Palagiano, i castellanetani in quello di Castellaneta e sono certo che massafresi, ginosini e laertini covino, in cuor loro, il sogno d’una analoga, privata, attribuzione.

Torniamo però a noi, alla nostra vicenda. Era verso mezzogiorno quando una decina di pitagorici, partiti di prima mattina da Taranto, raggiunse il famigerato passo; come una torma di briganti i siracusani saltarono fuori dai nascondigli e piombarono loro addosso; atterriti per la sorpresa e dalle armi scompostamente agitate, i malcapitati cercarono la salvezza dandosi alla fuga, non reputando tale atto contrario alla virtù: non aveva il loro maestro, infatti, sempre detto che il vero coraggio consiste nella capacità di discernere quel che si deve fuggire da quel che si deve invece fronteggiare a viso aperto? Fuggirono, quindi, per le campagne. E si sarebbero di certo salvati, dato che gli assalitori, appesantiti dalle armi, si erano di molto attardati dietro di loro. Il loro destino era, tuttavia, segnato: presi dalla foga, non s’avvidero di essersi ritrovati nel bel mezzo di un campo di… fave, nel pieno del proprio rigoglio. Sì, proprio di fave, di quelle che proprio in questi giorni stanno comparendo sulle bancarelle per strada e dei mercati. Ebbene: il divieto di toccare le fave costituiva per i pitagorici un precetto indiscutibile, quello cioè che gli antropologi definiscono un tabù per non violare il quale erano disposti a rinunciare pure al bene della propria vita, come aveva già in precedenza fatto, stando ad una delle molte tradizioni che narrano della sua fine tragica, il loro maestro.

Per evitare di contaminarsi col contatto con le fave, i pitagorici fermarono quindi la loro corsa verso la salvezza e rimasero ad attendere l’assalto dei sopraggiungenti siracusani, provando a difendersi con pietre e mazze e quant’altro capitava loro di trovare lì sul posto. Il numero soverchiante e le micidiali armature ebbero tuttavia la meglio: piuttosto che arrendersi i pitagorici preferirono farsi ammazzare, ad uno ad uno. Eurimene e i suoi si trovarono in uno stato di grande timore: come avrebbero potuto spiegare, infatti, al loro signore la circostanza? Come, con tanti che se n’erano trovati dinnanzi, potevano giustificare il loro fallimento, il loro rientro senza nessun filosofo?

Mestamente, compirono comunque il pio ufficio della sepoltura: scavarono una fossa comune, vi riposero i cadaveri dei pitagorici ed eressero poi un tumulo. Stavano allora per riprendere, non senza preoccupazione per il loro destino, il cammino verso casa, quando sopraggiunsero, all’oscuro del destino terribile occorso ai loro compagni, Millia e sua moglie Timica, altri due pitagorici: essendo, infatti, la donna gravida al nono mese, s’erano attardati rispetto al grosso della comitiva dei tarantini. Soddisfatti, i siracusani li catturarono sì, ma li trattarono al tempo stesso con ogni cura per poterli condurre indenni al cospetto del tiranno.

Una volta informato dell’accaduto, Dioniso si mostrò molto contento e propose addirittura ai filosofi di associarli nel governo della sua città. Pure di fronte al fermo diniego dei due, si dichiarò ugualmente disponibile e comprensivo. “Non abbiate preoccupazione alcuna”, pare abbia loro detto. “Vi lascerò tranquillamente ritornare alla vostra città, provvedendovi pure una adeguata scorta, purché però mi riveliate il motivo che ha indotto i vostri compagni a morire pur di non calpestare le fave”. Al che Millia rispose: “Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione”. Colpito dalla risposta, Dioniso diede ordine di trascinarlo via con la forza e di sottoporre la donna a tortura, nella certezza che la sola minaccia ne avrebbe sciolto la lingua. Non conosceva, il crudele tiranno, la talvolta perversa determinazione delle donne: fermamente risoluta a non rivelare segreti sui quali era obbligatorio tacere, per non parlare una volta che fosse stata sopraffatta dalle pene corporali, l’eroina preferì mordersi la lingua e ne sputò i brandelli in faccia al tiranno.

La narrazione si interrompe qui. Bene… ritornare sulle strade percorse da questi filosofi, replicare il loro pellegrinaggio stagionale per ossequiare la memoria del loro maestro pare momento di massima ispirazione, tale da farne il tema conduttore di un viaggio dedicato. E’ per questo, pertanto, che questa IX edizione del Grand our della Terra delle Gravine sarà

IL CAMMINO DEI PITAGORICI!

Primo giorno

Dopo un prologo in Piazza Castello, ai piedi delle colonne doriche, abbiamo effettuato una nuova partenza a chilometri zero, ancora da Lido Azzurro, ancora una volta sotto una pioggia che ci avrebbe dato il tomento per tutta la mattinata. Il resto del cammino, sino a Castellaneta Marina, si è tenuto all'interno della pineta (elevata a Riserva Biogenetica) con brevi deviazioni lungo stradine poste al limite con le campagne paralitorali. Particolarmente suggestivi sono stati i passaggi sui fiumi Lenne e Lato.

Secondo giorno

Il giorno successivo abbiamo camminato ancora attraverso il bosco; una volta giunti a Ginosa Marina l'abbiamo attraversata, manco a dirlo, percorrendo il lungo Viale Pitagora. L'ultimo tratto di pineta ci ha fatto dono di scorci che molto difficilmente potremo dimenticare, per motivi molto diversi: la devastazione della bufera abbattutasi nel precedente autunno, il suggestivo Lago Salinella e la laguna creata intorno alla Torre Mattoni da un altro evento catastrofico, quale fu l'alluvione occorsa la notte fra l'1 e il 2 marzo 2011. Giunti sull'alveo del fiume Bradano abbiamo quindi ripiegato verso Nord alla volta delle tavole Palatine, ove la tradizione pone la tomba del filosofo di Samo. Il secondo giorno di cammino è terminato alla Tenuta Orsanese, elegante edificio rurale di inizio Novecento al centro di una florida azienda agricola, produttrice di ottime fragole e kiwi biologici.

Terzo giorno

Lasciata la Tenuta Orsanese abbiamo percorso quel che resta della fitta rete tratturale che interessava questo angolo di Terra d'Otranto: nomi come Orsanese, Palagiano-Bradano, Serre, Le Rene e Pineto ormai orfani di riscontri reali, essendo per lo più inglobati all'interno della moderna, anonima, viabilità. Nulla che ricordi del passato di queste terre, una volta periferiche, oggi uno degli angoli più floridi d'Italia. Siamo quindi passati per luoghi tristemente ricorrenti nelle cronache brigantesche, come le masserie Saraba, Magliati, Follerato, San Matteo (Meledandri), Bolzanello. Come una dolente corona di rosario… Fra l'altro abbiamo fatto conoscenza di un angolo di terra particolarmente suggestivo, quale il passo di Giacobbe, famigerato in quanto costituiva il tramite per il quale i briganti facevano la spola fra Puglia e Lucania restando al coperto di quel che era una volta una folta boscaglia. Più recentemente il suo interesse si è di molto accresciuto grazie al rinvenimento dell'interessante sito archeologico peuceta della Castelluccia. Tutto il passo, che in realtà è un'ampia lama percorsa dalle acque in discesa dalla gravina di Laterza, è di grande suggestione per la ricchezza di vegetazione e di acque, sorgenti e fluenti. Abbiamo quindi percorso uno dei pochi tratti di Via Appia Antica per noi ancora inedito, quello coincidente con la taverna del Pagliarone; accompagnati quindi dai gagliardi Amici delle Gravine di Castellaneta, abbiamo effettuato l'attraversamento della gravina di Santo Stefano battendo un antico percorso da quei ragazzi ripristinato e amorosamente manutenuto, in pratica un'erta mulattiera interamente scavata negli suoi scoscesi fianchi. Il barlume di una luna quasi piena ha illuminato il nostro ingresso in Castellaneta.

Quarto giorno

Gli Amici delle Gravine di Castellaneta ci hanno il giorno successivo accompagnato nel primo tratto dell'ultima frazione di Cammino dei Pitagorici, sino al ponte ferroviario sulla gravina grande. Abbiamo quindi proseguito lungo la pista ciclabile distesa lungo l'antico percorso ferroviario sino oltre Palagianello. Dopo aver fatto visita all'antico trappeto del duca di Martina a Casalrotto, siamo ritornati sulla antica strada che da Palagianello conduceva a Massafra, così giungendo alla stazione ferroviaria di Palagiano-Mottola. Percorrendo strade di campagna sommersi dagli effluvi degli aranci in fiore siamo così entrati in Massafra percorrendo la strada del procaccia e risalendo, con molta fatica, la scalinata della chiesa della Madonna delle Grazie. Abbiamo quindi attraversato la martoriata periferia della Tebaide d'Italia per quindi raggiungere la meta finale: la monumentale mole di Masseria Lamastuola. Prima di congiungerci con gli amici in attesa ci è tuttavia toccata l'ardua impresa di attraversare la folta macchia che ammanta la collina sulla cima della quale essa s'erge.

Il Grand Tour della Terra delle Gravine è un progetto di Antonio Vincenzo Greco e Franco Zerruso per l'associazione culturale TERRA DELLE GRAVINE.